11 settembre 2015

Venezia 72 - Beixi Moshuo (Behemoth)


Che il cinema orientale non sia nelle mie corde penso di averlo espresso spesso e volentieri.
Il problema fondamentale è che non riesco ad entrare nei loro tempi, in quel ritmo sospeso, in quella dilatazione delle immagini che si fanno protagoniste.
La mancanza di una vera e propria storia, di una vera e propria sceneggiatura, non aiutano poi una abituata a venire toccata da quello che si racconta, e quindi la maggior parte dei film visti nelle varie edizioni del Festival e no, in cui tutte queste caratteristiche si possono ritrovare, non sono riuscita ad apprezzarli.
Ripeto: io non sono riuscita ad apprezzarli, che è ben diverso dal dire che siano brutti.
Non rimanere a bocca aperta davanti a scene che si fanno fotografie è impensabile, il problema nasce quando un film si compone solo di queste.
Con questa lunga premessa sembrerebbe quasi che Liang Zhao non sia riuscito a farmi cambiare idea, invece, inaspettatamente, dopo un inizio esteticamente sublime dove però la mia mente iniziava già a divagare per i fatti suoi, c'è stato il colpo di coda, un'ondata emotiva a cui non ho potuto sottrarmi e che mi ha travolta e avvinta fino al finale facendomelo apprezzare questo, facendomi capire finalmente anche il perchè di un certo stile.

Quello che il regista ci racconta è come le miniere di carbone della Mongolia stiano lentamente (ma neanche troppo) rovinando il Paese, distruggendo i campi una volta usati per i pascoli, restringendo in aree sempre più piccoli i pastori, mentre i tanti uomini semplici che nelle miniere o nelle fonderie lavorano, diventano i fantasmi di loro stessi, fantasmi neri, con la fuliggine che entra nel loro corpo e che lo ricopre. A dare voce ai loro tormenti, testi liberamente tratti dalla Divina Commedia, con l'occhio del regista a seguirli, a cercare di capirli.
Li vediamo lavorare, lavarsi via per quanto possibile tutto quel nero, che finisce inevitabilmente per attaccarli, per essere parte di loro, portandoli ancora giovani, ancora teoricamente in forze, nei letti d'ospedale. La macchina da presa indugia nei loro volti segnati, nei loro occhi rassegnati, in fotografie di chi non c'è più e dei loro parenti che chiedono aiuto allo stato.
Non si può restare impassibili, soprattutto quando quella macchina da presa ci mostra dove tutto quello che è stato estratto, è stato fuso, è andato: città fantasma, palazzoni inabitati costruiti nel mezzo del nulla.
Sale la rabbia, sale la rassegnazione e poi risale la bellezza, che anche in luoghi dove la morte si sente, sospesa nell'aria, c'è, in tutta la sua crudele potenza.

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