7 settembre 2015

Venezia 72 - Man Down


Ormai ogni film militare sembra una copia di una copia di una copia.
C'è il momento famigliola felice, il momento della partenza strappalacrime, c'è il momento del duro allenamento, sfiancante e logorante, c'è il momento del primo vero scontro con la realtà della guerra in cui, in un modo nell'altro, accade la tragedia, ti muore un compagno, ti muore un amico, magari proprio per colpa tua e basta, entri in crisi. Entri nella sindrome da post traumatico e non ne esci.
Tutto questo, ancora una volta, c'è anche in Man Down che cerca di aggirare il già visto mescolando questi momenti in ordine non cronologico, tra flashback e divagazioni della mente di Gabriel, aggiungendoci poi un presente in cui sembra che la Terra sia stata devastata da un'altra guerra, per l'appunto, in cui il figlio Johnny è disperso e da cercare.
Il Shia LaBoeuf che non è più famoso, che fa il motivatore su youtube, mette tutta la sua intensità in un dramma che invece annoia, che affonda nel ripetitivo e nel voler cercare senza neanche nasconderlo troppo la lacrima facile. E allora, vai di flashback, vai di riproposizione dei momenti chiave, delle frasi che sciolgono il cuore, vai a svelare in un colpo di scena la cruda verità.
Colpo di scena?
No, non lo è.
Basta osservare la fotografia patinata di quel presente per capire che qualcosa non va, basta fare 1+1 per capire come la guerra, come quell'incidente, ha reso instabile Gabriel.
E allora basta, vi prego, con queste copie, basta con i film di guerra che si assomigliano tutti, in cui fatalità muore un bambino e ci si sente in colpa, in cui c'è spazio pure per il tradimento.
Basta.
Non se ne può più.
Caro Shia, era meglio se restavi non famoso, perchè quest'ennesimo war movie con l'eroe solitario e tormentato, lo abbiamo già visto, e l'ultima volta, neppure Clint è riuscito a salvarsi.

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